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di Filippo Cavallaro
Ormai da mesi vorrei scrivere sul confronto tra le impressioni che mi lasciò la lettura del romanzo “Le vite nascoste dei colori” di Laura Imai Messina per Einaudi (2021), ed il trattamento fisioterapico proposto a Gino in quei giorni in cui mi dedicavo a quella lettura. Li sentivo vicini nei contenuti più profondi visto il loro rapporto con l’espressione cromatica.
Nel libro la protagonista, Mio, capace di percepire una infinità di sfumature di colori, ha lasciato il laboratorio di sartoria di famiglia per lavorare come decoratrice.
La storia è un continuo definire di sfumature che si intrecciano tra vita e morte nella cultura e nei rituali giapponesi. Vita e morte rappresentati dalle attività lavorative delle famiglie dei due protagonisti.
Lei proviene da una famiglia di sarti, specializzata in abiti da sposa, invito alla via; lui, Aoi, da una che gestisce un servizio di onoranze funebri, rispetto della morte.
Mio pensando agli insegnamenti che gli ha trasmesso suo padre cita il filosofo Emil Cioran, che, scriveva , «la vita è uno stato assoluto di insicurezza, è provvisoria per definizione, rappresenta un modo di esistenza accidentale». Continuava sostenendo che «non esiste guarigione, o piuttosto, tutte le malattie da cui siamo “guariti” le portiamo in noi e non ci lasciano mai». Yōsuke Yoshida, suo padre, pensava grosso modo la stessa cosa considerando l’esistenza piena di sentimenti di insicurezza e di provvisorietà. Questo legandolo non solo alla vita o all’impronta della malattia – di cui per principio cercava di ignorare – preferiva riferirli all’amore. Era convinto che proprio come gli splendidi ricami di uno shiromuku, che restano tali quando il kimono invecchia e si usura, anche gli esseri umani possono nascondere un’anima infetta in un corpo che si finge guarito. La salute pare ristabilita, si esce dal letto, ma è una bugia: da certe cose non ci si risana.
Per Aoi, invece, la morte, il lutto è l’occasione per reimparare la vita, per ricominciare.
Per molti, la morte, promuove un disperato tentativo di compensazione. Così giorno per giorno si imparava ad avere di nuovo fame, ci si concede da capo la sete come pure il desiderio sessuale.
Ci vuole tempo.
Come ce ne vuole per abituarsi a vivere bene anche senza un piede, o un polmone. Non sarebbero ricresciuti, ma si sarebbe imparata la lezione del fare a meno di, che in fondo era tutto ciò che serviva sapere di un lutto.
… imparare a fare meno di…
«Lo vedi crescendo “diceva suo padre” proprio nella capacità di sopravvivere alla scomparsa dei genitori, quanto è forte la vita… dopo la loro scomparsa».
Al contrario Gino, uomo dei mille colori del mare, intendeva sottomettere ai suoi intendimenti un corpo affetto da svariate patologie che avevano già lasciato segni, limitazioni, assenze, perdite. Ignorava, o preferiva ignorare come Yōsuke, e come lui era convinto che la malattia veniva nascosta? Gli dicevo che il suo corpo esprimeva delle difficoltà, e lui contestava la mia interpretazione della semeiotica, diceva che non sapevo leggere i segni del corpo. Arrivò a dire che se il corpo mi stava raccontando delle sue difficoltà, l’unica verità era che mentiva.
Io cercavo di mostrargli quali fossero i rischi di ciò che stava intraprendendo e che avrebbe portato a termine con pericolo. Come da lui voluto.
Anche io in riferimento a Cioran penso “all’ardimentoso inganno” che pervade la sua opera, in cui uno spirito crudele ma al contempo speranzoso, come il disinganno è presente.
Crudele perché di fronte ad esso ogni fenomeno mondano sfocia nel fallimento, speranzoso perché niente è più istruttivo, in filosofia, del fallimento stesso. Gino voleva girare per casa, una volta che veniva liberato dalle sbarre laterali “protettive” del letto e messi in piedi.
Una casa… un atelier d’arte… un museo… tutto questo la sua abitazione, e tutto nel suo caos ordinato, significante, e gestibile per l’antica memoria di vita, vissuta intensamente, in quegli spazi e con quegli oggetti.
«E’ stupefacente pensare a come col tempo la mente migliori, si diventi più saggi e più colti, e il corpo invece si deteriora, – disse Sayaka (sorella di Aoi addetta al trucco delle salme) con vivacità. – Ho sempre pensato che il punto sia proprio questo: il corpo è la prima cosa, quella per cui veniamo al mondo».
Sayaka e Mio si trovano insieme a vestire con un kimono shiromuku una signora che prima di morire aveva espresso questo desiderio.
Lo shiromuku bianco, dalle mille pieghe che producono infinite sfumature, per le nozze.
Mio riusciva a capire quanto vicino fosse un matrimonio ad un funerale.