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Noterelle riabilitative del padre del libraio: “Congelati”

Noterelle riabilitative del padre del libraio: “Congelati”

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di Filippo Cavallaro

Zero K è il titolo dell’ultimo romanzo di Don DeLillo, uscito per Einaudi nel 2016, che ho voluto rileggere alla luce di riflessioni a cui mi portava la fragorosa cascata di notizie, che hanno riempito giornali, televisioni, e social web nei mesi scorsi. 

Il libro prende il nome di una pubblicità che promuove, nello stesso romanzo, il “progetto Convergence” prospettando una crioconservazione del proprio corpo a 0°K (-273,15°C), in attesa che sia possibile curare tutte le malattie ed anche la vecchiaia sia stata sconfitta. Solo in quel tempo la persona sarà risvegliata dallo stato di incoscienza provocato dal congelamento. 

Coloro che possono permettersi questo tipo di assistenza sono solo i ricchissimi. Il laboratorio, che ospita lo straordinario progetto, è costruito, come se fosse un bunker, nel punto più inaccessibile di un deserto, ed è protetto da una organizzazione di tipo militare/religioso. Protagonista un ragazzo che è figlio di un magante newyorkese, quest’ultimo non accetta la malattia che ha colpito la giovane moglie, sposata in seconde nozze, e l’incedere inesorabile della propria vecchiaia. 

Per due frasi del libro, che mi colpirono, … queste: “siamo caduti fuori dalla storia”; “saremo esseri umani astorici”. Nella prima lettura, circa un anno fa, avevo maturato delle riflessioni, ed erano legati all’idea, che mi facevo, di straneazione che avrebbero vissuto al risveglio coloro che si facevano congelare. 

Pensando anche agli altri ospiti disabili del laboratorio, affetti da patologie ancora incurabili, e convinti di trovare nel futuro la cura per sé.  

Pensare al momento in cui la cura per la propria malattia sarà disponibile, la cura di una patologia, non di tutte. Costui fortunato, approfittatore della scienza, per sé, avrà “la cura”. Per lui … che dovrà svegliarsi nel deserto del futuro, ospite del laboratorio fortezza, attorniato da un sistema di vigilanza che lo ha protetto. Per lui ci sarà la cura, la terapia.  

Non ci saranno più i familiari, non potranno esserci gli amici, non si incontrerà il medico di famiglia che lo conosce bene, non ci sarà l’infermiere gentile, ma anche se scorbutico, comunque presente e capace, non ci saranno fisioterapisti e logopedisti con cui si percorre insieme molta strada nel recupero o nel frenare l’incedere della disabilità. Fuori dalla storia sicuramente sarà cambiata la musica, forse non ci sarà neanche la lingua che conosceva, i cibi che preferiva e la vivace compagnia che li contestualizzava. 

A cosa sarà servito essere curabile se si resta soli.

Sono convinto che il bello della vita sia raccontare una storia vissuta, pienamente per il mix creato tra affetti, attività e passioni, e non uscirne fuori nascondendosi nel freezer. 

Oggi sento sempre più frequentemente che c’è la convinzione dell’esistenza della cura per tutto e della capacità della scienza di rendere sempre giovani … immortali. 

Io sono cresciuto sapendo che le persone a cui avrei offerto le mie competenze di fisioterapia erano incurabili. Le paralisi, le amputazioni erano menomazioni definitive. 

Si è fatto molto per ridurne gli esiti, attraverso interventi sempre più precoci e mirati ad affrontare il danno e proteggere tutte le strutture che soffrirebbero secondariamente degli esiti. Si è fatto molto per costruire ausili, tecnologicamente sempre più avanzati, ed addestrane all’utilizzo la persona disabile. 

Il corpo sarà, comunque, segnato dalla menomazione. Le cicatrici ci ricorderanno la malattia o il trauma, le medicine e le terapie ritmeranno la quotidianità, i monitoraggi ed i controlli segneranno il progredire delle stagioni. Solo grazie al climax che circonderà la persona, grazie alla famiglia, agli amici, grazie all’umanità che ci circonda dai colleghi di lavoro, ai compagni di scuola, grazie al sistema complesso del servizio sanitario e sociale, si potranno vivere giornate piene di vita. 

Gracias a la vida! Diceva nel 1966 Violetta Parra. Grazie alla vita! Tradusse nel 1974 Gabriella Ferri. Entrambe purtroppo poi schiacciate dalla depressione.  

Viva la vita … da vivere tutta.