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di Filippo Cavallaro
Ridurre al solo corpo dolente…
Cancellare qualsiasi soggettività desiderante …
Sentirsi un giocattolo nelle mani del carnefice…
Questi secondo lo psicanalista argentino Miguel Benasayag gli obiettivi che si propone il torturatore.
Con la tortura si cerca la distruzione della personalità e non una verità. Si porta la vittima a confondere e perdere le motivazioni sia culturali o politiche, che affettive, aspetti unici, che lo distinguono come individuo, e che lo guidano, liberamente, nelle scelte di vita quotidiana.
Resta la vergogna di non essere più uomini, di essere dei corpi spogliati, nudi.
Un giorno per non distogliere lo sguardo il 26 giugno, dal 1997 giornata internazionale a sostegno delle vittime della tortura.
Un giorno di manifestazioni, di incontri e discorsi, un giorno che non cambia le cose. Poi l’orrore del mondo … resta.
Alcuni torturati riescono ad avere la forza di farsi riconoscere, e come rifugiati vengono seguiti da strutture specializzate, alcune presenti anche in Italia. Sono strutture molto ben organizzate, composte da medici, psicologi, fisioterapisti, assistenti sociali, mediatori culturali ed operatori legali. Le persone che arrivano nel centro generalmente sono segnalate dai centri di accoglienza per richiedenti asilo, pochi arrivano da soli alla porta dell’ambulatorio chiedendo di essere aiutati.
Donatella Di Cesare nel libro Tortura ( edizioni Bollati Boringheri), ha mostrato che “i gruppi di potere hanno sempre usato questa tecnica per imprimere nel corpo della vittima il loro messaggio: l’arbitrio assoluto del potere e la punizione contro il dissidente che ha osato metterlo in discussione”.
La proposta di un intervento sanitario per il vissuto dei pazienti è ambigua, perché nei sistemi oppressivi spesso i medici sono coinvolti. Ricordiamo la follia sperimentale delle SS naziste, con Josef Mengele, ossessionato dai gemelli. Il ruolo in molti regimi: indicando i punti deboli della vittima; stabilendo i limiti da rispettare per non ucciderla; rianimandola in modo che la seduta possa continuare. Le testimonianze dirette raccolte in una ricerca del Centro per la riabilitazione delle vittime della tortura (Rct) di Copenaghen riporta che il 60 per cento dei pazienti denuncia la presenza di un medico nella stanza delle torture.
Per questo motivo chi è stato torturato può essere diffidente nei confronti del medico. “Il medico fa domande, come anche il torturatore faceva domande, c’è una somiglianza simbolica tra quello che fa il medico e quello che ha fatto il torturatore. Inoltre, nella storia molti medici purtroppo sono stati torturatori”.
I loro corpi porteranno per sempre le menomazioni sulle strutture, lo strappo di elementi corporei, sono persone che sopravviveranno con profonde cicatrici nella mente, che sopporteranno alterazioni comportamentali, che silenzieranno memorie e ricordi. La distruzione, la perturbazione peggiore che va dalla perdita delle strutture alla perdita dell’identità.
Perturbazioni o interazioni, adattative o distruttive, secondo Maturana e Varela.
In fisioterapia si cerca di guidare la persona con disabilità alla scoperta della nuova realtà di vita che il corpo con le sue strutture può offrire.
È stata la malattia, il trauma a modificare in maniera distruttiva alcune strutture o funzioni corporee. La valutazione fisioterapica mette la persona di fronte a quelli che sono stati gli esiti della malattia, identificare i vincoli.
Il programma di intervento, gli esercizi terapeutici ed il recupero funzionale portano la persona ad acquisire competenze, riappropriarsi di domini, affrontando e risolvendo le problematiche poste dalla vita reale. Il percorso che il paziente fa con il terapista è una narrazione, un racconto, non si fanno domande. Purtroppo, si fanno misure, si percorrono i limiti delle strutture, le limitazioni del funzionamento, la diminuzione delle libertà per le cicatrici, per il dolore, per la debolezza, per la fatica, per la paura. Si fa apprendimento per utilizzare, in maniera appropriata alla nuova condizione, il corpo piagato.
I due biologi cileni ricondurrebbero questo alla loro idea di “accoppiamento strutturale”, cioè di una relazione tra due unità (terapista-paziente) o tra organismo-ambiente, come fonte di perturbazioni reciproche.
C’è un paradosso da sottolineare: pazienti che arrivano sorridenti, docili, contenti di aver trovato il posto giusto; dopo un po’ di tempo, mentre il percorso di riabilitazione va avanti, diventano sempre più irascibili, lamentandosi della qualità del cibo, criticando le inefficienze organizzative del centro.
Questo è un segnale positivo, significa che stanno ridiventando persone, si stanno riappropriando della vita.