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di Filippo Cavallaro
“Il giorno più lungo, 6 giugno 1944” è un libro di Cornelius Ryan, pubblicato per la prima volta nel 1959, che racconta la storia del D-Day, il primo giorno dello sbarco in Normandia durante la Seconda guerra mondiale.
Lo possedeva mio padre e lo lessi in una estate nel periodo in cui andavo alle scuole medie.
Il libro non è solo una storia militare, ma una raccolta di testimonianze sia di militari che parteciparono all’invasione che di civili francesi.
Il titolo si dice essere una frase del feldmaresciallo Erwin Rommel, che ad un ufficiale del suo staff dichiarò che le prime ventiquattro ore dell’invasione sarebbero state decisive, e per questo riteneva che le difese delle spiagge lungo il canale della Manica fossero poco resistenti.
Sono descritti i momenti della preparazione e dell’attesa, momenti di tensione e di preparazione.
C’è descritta la notte con la navigazione della flotta, improponibile di ogni tipo di naviglio, con il lancio nelle retrovie naziste di paracadutisti ed alianti.
L’arrivo in Normandia e lo sbarco sulle spiagge ribattezzate: Utah Beach, Omaha Beach, Gold Beach, Juno Beach, e Sword Beach. Le sanguinose battaglie sulle spiagge e, superato lo sbarramento di quello che era chiamato il Vallo Atlantico, nell’entroterra francese.
Lo lessi perché avevo visto il film con il cast di grandi attori americani dell’epoca, e perché la storia di John Steele, il paracadutista rimasto appeso al campanile di Sainte-Mère-Église, interpretato dal premio oscar Red Buttons, mi era rimasta impressa.
Quando fui assunto all’Ospedale Piemonte, entrai nell’organico della neonata cardiochirurgia. Fu un periodo intenso professionalmente, da studente avevo frequentato la cardiochirurgia al Santa Maria della Scala di Siena, ero stato in affiancamento per il tirocinio con i fisioterapisti che ci lavoravano, mai avevo avuto come paziente un bambino operato al cuore. Me lo ritrovai in quello che era il presidio ospedaliero della USL 42 Messina sud.
Ero titubante sulla procedura da eseguire per lo svezzamento dalla ventilazione meccanica ma non trovavo alcuna alternativa. Per questo motivo, pur consapevole del dolore che avrebbe sentito il piccolo paziente, mi attenni a proporgli le manovre per la ginnastica respiratoria, secondo le linee guida del Brompton hospital di quell’epoca, che gli avevo presentato prima dell’intervento. Preparai Giuseppe, come tutti, anticipandogli che purtroppo avrebbe sentito dolore a causa delle manovre per l’espansione delle basi polmonari, ma bisognava impegnarsi e non pensare alla grande cicatrice lungo lo sterno ed ai tubi che perforavano il torace per drenare l’essudato o i ristagni dell’intervento. Sicuramente ogni punto avrebbe dato fastidio ma bisognava far funzionare i polmoni e monitorare il miglior funzionamento del cuore.
Il dolore però lo bloccava per cui anche se ormai libero dal ventilatore, nei giorni successivi la sua performance non era brillante, era quindi corretto, necessario, che restasse in terapia intensiva.
Pensai che potessi avere una alternativa nella proposta di esercizi per l’espansione toracica, per cui vista l’esperienza con l’esercizio terapeutico conoscitivo in ambito ortopedico e neurologico, dove malgrado le condizioni patologiche, attraverso esercizi di riconoscimento, avrei proposto un apprendimento per imparare a governare le strutture corporee.
Proposi il riconoscimento di compattezza di tre materiali differenti ( fazzolettini di carta, compresse di garza, cotone idrofilo ). L’effetto fu immediato in quanto per riconoscere quale materiale avessi posto dietro la spalla doveva spingerla indietro allargando il torace e questo esprimeva subito un aumento dei volumi ventilati ed un incremento della saturazione di ossigeno. Bastarono pochi riconoscimenti dei materiali per migliorare i valori monitorizzati, e per dare a Giuseppe una differente postura ed uno sguardo più vispo, la braccia non erano più irrigidite lungo il corpo dal dolore sternale.
Fu a questo punto che mi ricordai del film e del paracadutista, chiesi due mascherine chirurgiche e due siringhe senza ago, ne feci due paracadute con le prime, che legati alle altre divennero due soldatini paracadutisti. Ci divertimmo a lanciare i paracadutisti nella terapia intensiva, ed i movimenti delle braccia portavano ad allargare al massimo il torace migliorando l’attività respiratoria oltre che motoria.
Il paracadute di John Steele rimase impigliato sulla guglia della chiesa. Restò lì per due ore mentre infuriava la battaglia e molti dei suoi commilitoni venivano uccisi dalle trappole disseminate per le campagne o dalle mitragliatrici tedesche. Venne fatto prigioniero e fuggito si ricongiunse alle truppe statunitensi che attaccarono e conquistarono il villaggio.
Giuseppe non lamentò altri dolori ed in pochi giorni venne dimesso e tornò a casa.
Oggi avrà una quarantina di anni e gli auguro di avere sempre voglia di costruire un paracadutista e lanciarlo il più in alto possibile per ammirare come aprendo la vela scende lentamente a terra o come accadde a John rimane impigliato per sempre.
Ora sul campanile della piccola cittadina di Sainte-Mère-Eglise, è esposto un manichino in onore di quel coraggioso soldato.