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di Filippo Cavallaro
Due vecchi attraggono la mia attenzione, forse perché ormai tra pochi mesi arriverò al traguardo della pensione, ma anche perché già da un anno sono nonno, ed ormai da tempo in alcuni musei e nei supermercati mi offrono la scontistica mirata all’età.
Si tratta dei due vecchi che caratterizzano l’avventura di Edmond Dantes nel romanzo di Alexandre Dumas, il conte di Montecristo: L’Abate Faria ed il signor Noirtier de Villefort.
La storia del conte di Montecristo è un’avvincente avventura che dura più di un ventennio, che vede il protagonista perdere la propria identità perché arrestato e condannato, quindi identificato solo con il numero 34. Dopo 14 anni di carcere, riesce a fuggire appropriarsi di un immenso tesoro, con questa nuova condizione viaggerà per 6 anni in Oriente dove imparerà a gestir0e molteplici identità, ma anche il patrimonio, i rapporti umani, la comunicazione nelle varie lingue e culture.
“Il vecchio Noirtier comandava con gli occhi, ringraziava con gli occhi, era un cadavere con degli occhi vivi, e niente talvolta era più spaventoso di quel volto di marmo quando, in alto, gli occhi si accendevano di collera …”
Per il testamento Valentine dice ai notai: “Ebbene, signori, grazie a due segni acquisirete la certezza che mio nonno non ha mai avuto più di adesso la pienezza della sua intelligenza. Il signor Noirtier, privo della voce, privo di movimento, chiude gli occhi quando vuol dire si e li strizza a più riprese quando vuol dire no.”
La cella dell’Abate Faria era un continuo svelare nascondigli: Rotoli di stoffa avvolti come antichi papiri erano il libro da lui scritto in molti anni; avanzi di cibo abbandonati erano le penne; il vino mescolato alla fuliggine era l’inchiostro; un pezzetto di ferro rotto era diventato un taglierino; il grasso del cibo era stato trasformato in candela; una pomata contenente zolfo gli aveva permesso di realizzare dei fiammiferi; un osso con il quale aveva realizzato un ago; una lunga corda intrecciando fili di stracci e fili di capelli e barba.
Dantes così lo ammira: “Penso alla quantità enorme di intelligenza che avete dovuto impiegare per fare tutto questo. Che cosa non avreste mai fatto se foste stato libero?”
Lui risponde: “Forse nulla. L’eccezionalità delle mie capacità mentali si sarebbe volatilizzata in futilità. Ci vogliono sventure per scavare certe miniere nascoste nell’intelligenza umana; ci vuole la pressione per far scoppiare le polveri. La prigionia concentrò in un solo punto tutte le mie capacità fluttuanti qua e là, che si sono urtate in uno spazio ristretto e, come sapete, dall’urto dei nembi nasce l’elettricità dell’aria, dall’elettricità nasce la folgore, dalla folgore la luce.”
La capacità dell’Abate Faria nel riconoscere usi e funzioni diverse, se opportunamente manipolati, ad elementi che potrebbero sembrare rifiuti, mi porta a considerarlo come una persona con una intelligenza che va oltre le cose, gli oggetti in se, facendoli diventare arnesi, strumenti, per un uso che possa rendere la vita da recluso meno scomoda.
La capacità del signor Noirtier non è limitata dal confinamento fisico di una cella in un carcere … chi lo tiene prigioniero è il suo stesso corpo, che immobilizzato, da una paralisi, non gli permette alcun movimento e gli impedisce di parlare.
Si tratta di due persone che ci fanno comprendere come si può cercare una alternativa, per oggetti e cose ma anche per le persone, a volte basta cambiare punto di vista, altre volte basta dare il tempo debito, altre basta mettersi in ascolto.
34 era ed ancora è il modo più cattivo per nominare, squalificando, al contrario dell’intelligenza dell’abate che trasformava l’osso in ago, ed ancora più di Valentine che insieme al nonno Noirtier trova il modo di superare l’afasia motoria del parlato attraverso una comunicazione basata sul riconoscimento del sentito e del letto.
Filippo Cavallaro