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di Filippo Cavallaro
Emilio ha un problema dettato dalla forte sofferenza all’avampiede bilateralmente. È uno stakanovista ed al suo banco di lavoro resta fisso in piedi per ore ed ore di produzione continua, dimenticando anche di fare la pipì, visto che non ha la distrazione di bere un goccio d’acqua, di gustare un caffè o di fumare. È anche un po’ sovrappeso, e, questo purtroppo non aiuta le arcate delle piante a mantenere le spinte elastiche necessarie ad ammortizzare i carichi ed a dare slancio al passo.
La sera in cui mi ha parlato di questo problema, mi capitò di leggere una descrizione dei piedi nel romanzo “La felicità del lupo” di Paolo Cognetti, che mio figlio mi aveva consigliato per la descrizione delle camminate tra rifugi alpini che compiono i protagonisti, Silvia, Fausto e Santorso. Costoro spesso vanno da un rifugio all’altro ed a volte verso qualche vetta piuttosto che verso valle. È proprio Silvia, che tornando in città, così li descrive:
“avevano imparato un’arte, fatta di dita, talloni, caviglie, archi plantari, piedi che erano diventati meravigliosi equilibristi sulla roccia e sul ghiaccio, e ora sull’asfalto tornavano un mezzo di locomozione molto meno efficiente della ruota.”
La visione utilitaristica, da trasportatore, che fa Silvia è limitante il ruolo delle nostre estremità, considerando che nel mondo anglosassone i piedi corrispondono alla persona, e la frase “mettiti nei miei panni” viene tradotta in “put yourself in my shoes”, come se l’empatia verso l’altro parta dai piedi.
Per cui se l’empatia è la capacità di comprendere pienamente lo stato d’animo altrui, sia nella gioia, che nel dolore, bisogna tenere presente che questo passa attraverso il benessere dei piedi.
Camminare per boschi, anche in inverno, guardandosi attorno e scoprire, grazie all’andare lento, che ci sono panorami da apprezzare, e che gli animali, gli alberi e tutto ciò che li circonda … è bello. Anche l’arrivo del lupo nel romanzo si saluta con un “ben arrivato”, e si percepisce non incontrandolo ma dalle tracce, in quanto ci si imbatte casualmente in una carcassa di camoscio sventrata. L’intestino è rimosso ed allontanato, fegato, cuore e polmoni sono stati mangiati come proprio pranzo, mentre il resto sarà alimento per altri piccoli carnivori fino a quando non sarà coperto dalla neve, che lo conserverà ad altri in primavera.
Camminate con scarpe ed anche i ramponi, che proteggono il piede ma che lo fanno lavorare per mantenere il corretto funzionamento ammortizzante di tutte e 28 le ossa che lo compongono. Ossa che mantengono stabilmente una strutturazione funzionale alla potenzialità di stare fermo, camminare, correre e saltare, anche su un piede solo.
I piedi per questo hanno una architettura che permette alle articolazioni di svolgere al meglio la funzione di amplificare il gesto dettato dalla contrazione muscolare. L’architettura è complessa ed ogni singolo elemento è importante le arcate che troviamo, oggi secondo la moderna descrizione anatomo-funzionale sono almeno quattro. Tutte da tenere in considerazione nella valutazione della salute del piede: due longitudinali corrispondenti al primo raggio, la mediale, ed al quinto, la laterale; due trasversali, quella anteriore, tra metatarsi e dita, e quella mediale, tra tarso e metatarso. Queste arcate sono tenute in posizione grazie alle strutture muscolo tendinee che ne mantengono la stabilità. La perdita o l’alterazione di tono e trofismo, di forza o reattività, di massa ed elasticità porta alla sofferenza di quelle strutture molli che dovrebbero essere protette proprio da ossa, tendini e muscoli.
Restando sempre in piedi, fermi, i muscoli perdono la propria elasticità, e perdono la potenza contrattile, le arcate soffrono, cedono, possono addirittura collassare ed il piede si appiattisce, la pianta si fa sottile come la sfoglia per fare i tortellini, mettendo in conflitto le terminazioni nervose ed i vasi sanguigni con le ossa. Un conflitto costante che aumenta con il sovrapporsi del carico del nostro peso.
Nel romanzo ci si imbatte anche in una storia di traumatologia quando si racconta del vecchio Santorso che in una caduta si rompe le braccia. Viene descritto di come, da montanaro, affronterà la fase di recupero funzionale, ma nel contempo della sindrome da allettamento che per la prima volta in vita sua gli fa sentire “lo sbalzo di quota: il cuore in gola e il fiato che mancava”, esperienza che non ci racconteranno mai i duri uomini delle cime.
Ad Emilio ho consigliato di camminare, poi arrivati ad un minimo di allenamento, provare a saltellare sul posto durante il lavoro in piedi, di fare spesso trasferimenti di carico sia in latero-laterale che in antero-posteriore. Gli ho detto che un beneficio a non caricare troppo e continuamente potrebbe essere avere uno sgabellone, o un tubo montato tipo transenna a cui appoggiarsi, oppure una novità, derivata dalle applicazioni in robotica per gli esoscheletri, che viene consigliata da indossare nella pesca sportiva.
“È nei piedi la nostra coscienza” scrisse Alberto Savinio in “Inno al piede” nel 1949, vero che sotto di loro passa oltre all’empatia anche la nostra salute.
Filippo Cavallaro