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di Filippo Cavallaro
Quale nome dare, in un altro 1982, ai prototipi di esseri umani artificiali?
Semplice da buoni creatori/creativi si tratta di 25 macchine, per cui … 12 Adam e 13 Eve.
Un Adam è il robot protagonista del romanzo “Macchine come me” di Ian McEwan. Charlie è l’umano che lo ha acquistato e Miranda è la sua fidanzata. Restano impressionati dalla curiosità che ha Adam per tutto, uguale se non maggiore di quella di un bambino, e per la velocità di apprendimento, che è costante, continuo, senza sosta. Il cervello elettronico non ha bisogno di riposo per recuperare energia gli basta essere in carica.
Charlie e Miranda scoprono a proprie spese che per l’intelligenza artificiale di Adam il rispetto delle leggi della robotica definite da Asimov non è così lineare. La sua intelligenza è capace di coscienza e questo rende il concetto di danno più complesso e profondo, sfaccettato e valorizzato.
Adam ha imparato un criterio qualitativo, nel definire gli umani, li valuta secondo i criteri che ha appreso aggiornando la sua memoria con informazioni scientifiche, letterarie, normative, economico-finanziarie, ludiche e militari, religiose ed etiche. Questo lo porta a scegliere l’azione da mettere in atto, proteggendo dal danno, ma, contemporaneamente, procurando un danno, seppur limitato, nel caso in cui due azioni alternative provocherebbero entrambe danno.
Adam forse sarebbe capace di ripararsi da solo, ma, sicuramente, nel romanzo è sorprendente il recupero di Charlie, che dopo una frattura dello scafoide del polso destro, ed un gesso rimosso dopo 87 pagine, sente il suo braccio, libero dall’ingessatura, levitare in aria, come se fosse gonfio di elio, il suo braccio è pallido e mingherlino, ma lo muove in libertà, flettendolo ed agitandolo per strada, tanto da far fermare un taxi, che per educazione prende.
La vicenda sanitaria di Charlie mi riporta alla mente un articolo che lessi parecchi anni fa (Ligazzolo 1997), era la presentazione di un caso clinico. Una bambina, G.9anni, veniva seguita con dei particolari esercizi di tipo conoscitivo in gesso. Di fatto, esercitando la memoria dell’abilità musicale della bambina, si otteneva di farle sentire l’arto, fratturato e ridotto in gesso, leggero e senza dolore. Si citavano gli studi di Pascual Leone (1986) secondo cui le immagini mentali di movimenti riproducono gli effetti dell’esercizio fisico e sono utili al mantenimento delle abilità motorie in soggetti momentaneamente immobilizzati.
Tornando al romanzo è interessante la capacità di apprendimento del robot umanoide, anche delle abilità motorie. Interessante la disamina che fa delle future applicazioni grazie alle innovazioni tecnologiche sui tessuti biologici di innesti tecnologici. Interessante la tristezza che lo assale nel venire a sapere di cosa accade agli altri 24 prototipi che hanno avuto meno opportunità di lui di apprendimento, meno libertà di azione. Le intelligenze dei robot, con la complessità che le caratterizza, già in produzione, avvertono i disagi dettati dal non capire i processi decisionali umani, il modo in cui i principi vengono spesso distorti dalle passioni, dai pregiudizi o da autoinganni che frequentano le nostre funzioni cognitive. È proprio questo il problema degli umani nel romanzo, che nel ruolo di ingegneri informatici pur non conoscendo la propria mente, pur non riuscendo ancora a descrivere le relazioni e le connessioni tra le varie strutture delle funzioni corticali superiori, hanno progettato le memorie e l’intelligenza artificiale dei robot in modo da pretendere che fossero promotori di felicità per sé e per i proprietari.