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di Giuseppe Ruggeri
Alla fine di questa pandemia conteremo i morti. Che non saranno solo quelli per o con Covid. Saranno i morti nell’intelligenza, nella voglia di capire, nella ricerca della verità. Saranno i morti che hanno rinunciato a vivere per paura di morire. Saranno i morti che si sono arrampicati sugli specchi per giustificare cifre statistiche sistemi. Saranno i morti che hanno piantato radici nel nulla. Saranno i morti senza storia, perché la storia – quella vera – è passata loro addosso come un rullo compressore, schiacciandoli.
Vorremmo che di questi morti, dopo che tutto sarà passato, si continui a parlare. Che di questi morti non ci si dimentichi nonostante la nostra – come scrisse Indro Montanelli – sia una Nazione senza memoria e che pertanto non usa fare tesoro delle esperienze, buone e cattive, per migliorare e migliorarsi. Di questi morti si dovrà parlare se altri se ne vogliono evitare, in un futuro che non sembra ancora far capolino dalla nebbia di questi mesi di fumo, sangue e sudore. Che è soprattutto fumo, sangue e sudore dell’anima, vuoto pneumatico di valori e sistemi virtuosi di governo della cosa pubblica, quella che i nostri padri Latini – che di memoria s’intendevano – insegnavano dovesse amministrarsi con l’oculatezza del “pater familias”.
Quanti ricordi mi affiorano in mente mentre, gli occhi fissi sullo schermo, cerco inutilmente di esorcizzare con il trastullo effimero della scrittura il profondo senso di frustrazione e amarezza che provo dinanzi al tempo che mi tocca vivere. Un tempo appiattito dall’incapacità di saper guardare cosa ci aspetta oltre il guado che stiamo attraversando, perché siamo frattanto occupati a liberarci dalle sanguisughe che affiorano a pelo d’acqua e a scacciar zanzare. Le paludi di questo e altro abbondano, e noi ci siamo dentro da troppi mesi.
Quanti ricordi che non vorrei avere. Strade deserte, cieli lividi, urla scomposte di ducetti montati sul piedestallo della propria ignoranza per dichiarare guerra a ogni forma di civiltà e educazione, folle che si riversano nelle strade allontanate con i lanciafiamme (per i carrarmati c’è mancato poco), spiagge diventate terreno di caccia delle forze dell’ordine, ambulanze in fila davanti ai pronto soccorso, camici bianchi corsie ospedaliere ingolfate malati intubati ….
Eppure devo fare uno sforzo su me stesso perché ricordare bisogna. Bisogna ricordare per non rischiare di restar indietro credendo di procedere in avanti, bisogna ricordare per non farsi dimenticare, quando invece sarebbe necessario che di noi restasse la memoria che ci rende cellule insostituibili di un organismo tenuto insieme, nei millenni, dal filo invisibile della continuità.
Sarebbe un vero peccato che il patrimonio di questi mesi andasse perduto nel vento. Evitandosi, così, di ricostruire il mosaico di quanto non andava fatto e viceversa. Le autopsie negate, le cure domiciliari affidate alla
“vigile attesa” e alle terapie sintomatiche, l’”affaire” delle mascherine, i ritardi delle vaccinazioni, tutto e tanto altro forma la sporta caricata sulle spalle di un inizio secolo difficile da archiviare.
Conteremo i morti. Che, a parte quelle dovute al Covid, saranno state causate da tante, troppe altre patologie, come ad esempio quelle oncologiche (più di 300.000 nuovi casi previsti nel 2021) e le cardiovascolari (in particolare per infarto del miocardio). Le cause? La mancata prevenzione e la paura di essere ricoverati in ospedali “infetti” dal virus.
Non è il momento della caccia alle streghe. Mai come adesso c’è stata necessità – anzi imperio – di buon senso che, sempre i nostri padri Latini, identificavano nel “modus in rebus”. Mentre Aristotele, un altro grande dimenticato, posponeva al dibattito tra tesi e antitesi la formulazione di una qualunque sintesi.
La pandemia passerà. Nino Ioli, da me recentemente intervistato per questa testata, ha fatto presente che tutte le pandemie, anche le più gravi, non superano i due anni di durata, esempio tra tutti la pandemia influenzale “spagnola” che durò dal 1918 al 1920 e fece cinquanta milioni di morti.
Passerà la pandemia, ma non il senso di precarietà che questa prova ci ha trasmesso, squarciando il velo che copre il cuore fragile della nostra corazza di uomini moderni, ipertecnologici. Un virus infinitamente più piccolo del più sottile dei nostri capelli ha messo sotto scacco il pianeta che credevamo di abitare da sovrani e che invece si è trasformato in un
campo di battaglia senza esclusione di colpi.
Ci conteremo, alla fine di tutto.
Quando tutto, per continuare, dovrà per forza avere un nuovo inizio.