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Un recente studio dell’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano (INT) ha individuato alcuni fattori cruciali che consentono di prevedere quali pazienti potranno rispondere meglio al trattamento genico-cellulare CAR-T

Un recente studio dell’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano (INT) ha individuato alcuni fattori cruciali che consentono di prevedere quali pazienti potranno rispondere meglio al trattamento genico-cellulare CAR-T

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Le terapie CAR-T rappresentano una delle maggiori novità degli ultimi anni per il trattamento dei tumori del sangue. Si basano essenzialmente su una procedura che consente di rendere i linfociti T, un’importante componente del nostro sistema immunitario, in grado di attaccare il tumore. Per arrivare a questo obiettivo, si procede al prelievo di un campione di sangue del paziente, da cui vengono selezionati i linfociti T. Questi vengono poi ingegnerizzati in laboratorio in modo che esprimano sulla loro superficie il recettore CAR (Chimeric Antigen Receptor), deputato a riconoscere l’antigene CD19 presente sulle cellule neoplastiche. Una volta re-infusi nel paziente, i linfociti T ingegnerizzati, o cellule CAR-T, possono individuare e distruggere le cellule tumorali.
La terapia a base di CAR-T è stata applicata con successo su alcuni tipi di neoplasie ematologiche, come per esempio i linfomi non Hodgking e le leucemie linfoblastiche, nei pazienti che non hanno risposto o hanno risposto in modo incompleto alle terapie convenzionali. Il problema è che esiste una quota consistente di soggetti che non risponde neppure alle terapie CAR-T, o risponde solo parzialmente. Ora un nuovo studio coordinato dal prof. Paolo Corradini, direttore della Struttura Complessa di Ematologia dell’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano, in collaborazione con l’Istituto Humanitas di Rozzano (MI) ha chiarito alcuni aspetti importanti di queste mancate risposte terapeutiche, aprendo interessanti prospettive sia per la pratica clinica sia per la ricerca.
“Le CAR-T vengono proposte a pazienti con linfomi che hanno una ricaduta di malattia dopo i trattamenti convenzionali e non hanno più alternative terapeutiche: il 40-45 % dei soggetti sottoposti a questa terapia sopravvive a lungo termine, cioè è vivo e in remissione a un anno ed è guarito, perché le ricadute tardive, oltre l’anno, sono eventi molto rari”, ha esordito il Prof. Corradini. “Rimane però il problema del 55-60% dei soggetti restanti che non risponde alle CAR-T, oppure risponde solo parzialmente e ha una nuova ricaduta a breve termine.”
Da qui il progetto di ricerca, portato avanti con gli esperti di statistica e anatomia patologica dell’INT, in collaborazione con il gruppo del Prof. Carmelo Carlo Stella dell’Istituto Humanitas, dedicato all’analisi di possibili biomarcatori predittivi di risposta alle CAR-T. I risultati dello studio, che ha coinvolto complessivamente 51 pazienti, sono pubblicati sulla rivista “British Journal of Haematology”1.
“Dall’analisi di questo campione di pazienti discretamente numeroso sono emerse alcuni dati fondamentali: il primo è che un livello di DNA libero circolante tumorale al di sopra di una certa soglia, individuata nello studio, è predittivo di una scarsa risposta alla terapia con le CAR-T”, ha aggiunto il Prof. Corradini. “Questo risultato è particolarmente importante perché attualmente sono disponibili farmaci, come gli anticorpi inibitori dei checkpoint immunitari o gli anticorpi bispecifici, come il glofitamab, che potrebbero modulare la risposta in alcuni pazienti, se individuati per tempo.”
Un risultato molto incoraggiante, che però dipende in modo cruciale dal tipo di mancata risposta terapeutica.
“Se il paziente non ha mai risposto alle CAR-T, e va quindi incontro a una franca progressione, purtroppo non ci sono opzioni terapeutiche efficaci”, ha chiarito il Prof. Corradini. “Diverso è invece il caso di un paziente che ha avuto una risposta parziale alle CAR-T e in cui magari la malattia va in progressione dopo qualche mese: in questo caso, la malattia viene controllata meglio, ottenendo una migliore risposta e una maggiore sopravvivenza se, in concomitanza, viene fatto qualche trattamento immunologico, o anche una chemioterapia o una radioterapia: questo è il secondo risultato importante che abbiamo ottenuto, che conferma quanto già emerso da altri studi.”
Rilevante ai fini degli esiti clinici è anche il tempo che trascorre dal trattamento CAR-T alla progressione di malattia.
“Facciamo l’esempio un paziente che risponde alle CAR-T per quattro mesi per poi andare incontro nuovamente a una progressione di malattia: se si interviene successivamente con un anticorpo bi-specifico la sua probabilità di rispondere al trattamento è decisamente più alta rispetto a un soggetto che purtroppo va già in progressione dopo 30 giorni, e che quindi mostra una risposta brevissima o addirittura non mostra alcuna risposta”, ha sottolineato il Prof. Corradini. “Ciò induce a considerare la prima come una malattia parzialmente immuno-sensibile e la seconda una malattia del tutto immuno-resistente.”
Tutti questi dati, considerati insieme, fanno pensare che il risultato clinico dipenda in definitiva da molteplici variabili, molte delle quali rimangono ancora sconosciute, anche se la ricerca sta gradualmente gettando una luce su alcuni meccanismi fondamentali.
“In conclusione, possiamo lanciare un messaggio positivo: in questo ultimo lavoro, mostriamo che i pazienti che hanno avuto una ricaduta dopo la terapia con CAR-T hanno comunque una possibilità del 30% di sopravvivenza a due anni”, ha spiegato ancora il Prof. Corradini. “Può sembrare un numero limitato, ma occorre considerare che si tratta di pazienti che in precedenza avrebbero avuto un tracollo rapidissimo della situazione clinica; l’obiettivo della nostra ricerca è ora di riuscire a individuare in anticipo la quota di pazienti che con maggiore probabilità risponderanno alla terapia con le CAR-T e la quota che invece sarebbe meglio inviare direttamente alla terapia con anticorpi bispecifici, in un’ottica di sempre maggiore personalizzazione delle cure oncologiche.”